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Lepanto e i greci

LEPANTO E I GRECI - parte I: i greci alla vigilia della battaglia navale
di Manoùssos Manoùssacas
Atti del convegno "Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto", promosso dalla Fondazione G. Cini, Venezia, 8-10 Ottobre 1971, in occasione dei 400 anni dalla battaglia
[ Benzoni, Gino, et al. Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto. L. S. Olschki, 1974. ]
Dato che lo storico scontro di Lepanto ha avuto come protagonisti principali da una parte l'impero ottomano e dall'altra le due potenze cristiane che avevano costituito la Sacra Lega, la Spagna e Venezia con i loro alleati, è naturale che l'argomento venga spesso esaminato dal punto di vista di queste grandi potenze, tanto per quel che concerne lo svolgersi dei fatti, quanto per quel che riguarda la valutazione della loro importanza. Una piccola nazione come la Grecia, asservita inoltre da più di cento anni all'impero ottomano, attira certamente molto di meno la ricerca storica, sia per il ruolo che ebbe in questo grande avvenimento, sia per l'influenza che esso esercitò sulla sua coscienza e sulla sua evoluzione storica. Malgrado ciò non dobbiamo disconoscere alcuni fatti fondamentali e prima di tutto che la battaglia navale di Lepanto si svolse in acque greche. Poi, che una notevolissima percentuale dei combattenti, da entrambe le parti, che parteciparono allo scontro, era greca. Inoltre che i greci svilupparono una grande attività bellica e politica al fianco degli alleati tanto alla vigilia e durante i preparativi dello scontro, quanto durante le imprese della Lega nell'anno successivo alla vittoria, il «drammatico » 1572. E infine che da una furono soprattutto i greci a subire la dura rappresaglia degli parte pagarono a un prezzo molto alto la sconfitta turca, perché sconfitti, mentre dall'altra il loro morale fu risollevato dalla vittoria cristiana in maniera così forte, da determinare l'inizio di vari moti insurrezionali e sollevazioni. Sul ruolo che i greci ebbero nella battaglia di Lepanto fino a poco tempo fa la bibliografia greca era povera. Esistevano pochi e sparsi studi su avvenimenti isolati, mentre le ricche fonti degli archivi veneziani e soprattutto spagnoli rimanevano inesplorate, come lo sono quasi ancora quelle turche.
Fortunata mente, la ricerca ha compiuto negli ultimi anni importanti progressi, grazie alle indagini del mio compianto predecessore Michele Lascaris, che per primo iniziò lo spoglio degli archivi spagnoli e soprattutto grazie ai più recenti lavori del mio collaboratore e ora professore incaricato all'università di Salonicco, Giovanni Hassiotis. Il Hassiotis ci ha dato in questi ultimi anni due libri, uno sui fratelli Melissinòs, capi di un movimento insurrezionale nel Peloponneso sud-occidentale nel 1571-1572, e un altro su "I greci alla vigilia della battaglia di Lepanto", dove vengono esaminati gli appelli, i moti insurrezionali e le sollevazioni nella penisola greca dalla vigilia fino alla fine della guerra di Cipro (1568-1571) sulla base di un nuovo materiale, attinto dagli archivi spagnoli e veneziani.
È forse necessario, prima di incominciare, dire due parole sulla condizione dei greci a quel tempo, cioè più di un secolo dopo la caduta dell'impero bizantino (1453) e la sua sottomissione ai turchi.
I turchi possedevano allora le più importanti e numerose regioni greche: tutto il Peloponneso, la Grecia continentale, la Tessaglia, l'Epiro e la Macedonia. Da poco avevano sottomesso anche le isole dell'Egeo eccetto Tino, allora possedimento veneziano. Ai veneziani, dopo le ripetute ritirate, rimanevano ancora Creta, l'Eptaneso e alcuni centri strategici e commerciali del nord Epiro. La seconda grande isola, Cipro, la persero proprio al tempo della battaglia navale. La vita delle popolazioni greche sotto il giogo turco, durante questo primo secolo di schiavitù, era dura. Per questo molti si rifugiavano nelle regioni dominate dai veneziani, dove almeno c'era un grado di civilizzazione a livello più alto, oppure nelle grandi città d'Italia e d'Europa, dove rafforzavano le comunità greche. Tra queste maggior rilievo avevano le comunità di Venezia e di Napoli, la prima con la sua attività nel campo del commercio, delle lettere e dell'arte, la seconda con il vivace movimento dei famosi "stradioti" greci e degli agenti che prestavano il loro servizio in Spagna. Questi stradioti greci, al servizio sia di Venezia sia della Spagna, assieme agli eruditi in esilio in Occidente, che ricopiavano o commerciavano in manoscritti e favorivano l'edizione di autori classici e ecclesiastici, ebbero, come vedremo, un ruolo determinante negli avvenimenti che esaminiamo. Quanto alle regioni greche sotto il dominio veneziano, il continuo contatto con l'Occidente e le migliori condizioni di vita avevano creato, soprattutto a Creta, un più elevato livello di civilizzazione e di benessere e persino favorito lo sviluppo della letteratura e dell'arte in modo rilevante, grazie alla fertile influenza veneziana.
Per queste terre non si poneva il problema di liberarsi dal giogo straniero. Esso si poneva solo per le regioni dominate dai turchi.
Col clima però di paura che imperava nell'Europa cristiana a causa della sempre più ampia espansione turca, era difficile che, prima di Lepanto, esistessero seri tentativi di movimenti di liberazione dal dominio turco. La liberazione nazionale tuttavia continuava sempre ad essere il sogno degli umanisti greci sparsi in Europa, che non cessavano di indirizzare commoventi appelli ai potenti governanti degli stati cristiani, come pure il desiderio comune di tutti i greci che vivevano sotto l'oppressione turca. E tutti cercavano ogni occasione possibile per conseguirla, con la collaborazione e l'aiuto delle forze europee.
Una simile occasione si presentò appunto proprio alla vigilia della battaglia di Lepanto, a causa dell'attacco turco, nel 1570, contro Cipro, attacco che colse di sorpresa la stessa Venezia e la costrinse a rivolgersi alle altre potenze cristiane per aiuto, creando così i presupposti per la costituzione della Sacra Lega nel maggio 1571. I greci, che seguivano con attenzione e apprensione lo svolgersi degli avvenimenti, diedero inizio da un lato ad una serie di contatti, proposte o progetti antiturchi con le due grandi potenze cristiane, la Spagna e Venezia, e dall'altro presero parte attiva agli scontri militari che incominciarono a causa della guerra di Cipro.
Parliamo prima delle proposte e dei progetti. Questi progetti furono un'iniziativa di alcuni greci che vivevano in Occidente, in territorio veneziano e spagnolo e che si affrettarono, o per puro idealismo, o per calcolo o anche per spirito avventuriero, ad offrire la loro collaborazione alle potenze cristiane per un attacco contro i turchi e ad assumersi anche missioni difficili e spesso pericolose. Le recenti ricerche del Hassiotis ci hanno permesso di conoscere molti di loro e le rispettive azioni. I più collaborarono con la Spagna di Filippo II, la sola nazione europea che fino al XVIII secolo non mantenne stabili rapporti diplomatici con l'Impero Ottomano e che per questo era la maggior speranza dei greci in schiavitù, il miglior finanziatore di mercenari greci, stradioti o marinai e il sicuro rifugio degli umanisti ed artisti greci, dall'umile Demetrio Ducas fino al grande Domenico Theotocopulos, detto "El Greco".
Le persone che si offrivano spesso agli spagnoli per un'azione antiturca erano i greci emigrati che militavano come mercenari nella cavalleria leggera spagnola a Napoli, Milano e in Fiandra. Con la loro esperienza, modesta o grande che fosse ma con eccessivo ottimismo, preparavano piani di attacco contro basi militari dei Balcani del sud, soprattutto del Peloponneso. Presentavano da una parte le unità degli ottomani come disorganizzate, dall'altra come particolarmente intensa la disposizione alla rivolta degli abitanti locali e le forze dei ribelli molto maggiori di quanto fossero in realtà. Proponevano di assumersi la responsabilità della lotta, perché preferivano, invece di combattere sotto la bandiera di sovrani stranieri e in suolo europeo, lottare per la liberazione della loro patria soggiogata su terreni conosciuti e cari e al fianco dei loro connazionali. Citerò qui due casi del genere, caratteristici per il modo con il quale quei combattenti affrontavano il problema della cacciata dei turchi dai Balcani.
Il primo riguarda Pietro Menaghiàs dal Peloponneso, capitano di stradioti. Il Menaghias, nella primavera del 1569, presentò tre estese relazioni con proposte per un intervento armato spagnolo nel Peloponneso, accompagnate anche da una pianta, dove venivano indicati i centri militari più importanti. Si tratta di un piano d'attacco molto minuzioso, con una gran quantità di informazioni sulle fortificazioni e sulle forze militari turche. Menaghias chiedeva 10 o 12.000 fanti spagnoli e 1.000 cavalieri stradioti greci o albanesi. Lo sbarco doveva avvenire a Patrasso, poi la flotta si sarebbe indirizzata verso Navarino e Modone, che sarebbe stato il principale bersaglio. Con una buona dose di ottimismo Menaghias prevedeva anche i più piccoli particolari nello sviluppo delle operazioni e ne assicurava il felice esito. In cambio chiedeva solo che, dopo l'occupazione dei Peloponneso, Filippo II gli restituisse la baronia di Kyparissia, che apparteneva ai suoi antenati. Il segretario di Filippo, Antonio Perez, fece un rapporto favorevole alla proposta del Menaghias, sottolineando soprattutto i vantaggi economici dell'impresa. La proposta venne trasmessa da Madrid al vicerè di Sicilia, marchese di Pescara, perché la esaminasse, ma sembra che questi non abbia dato seguito alla cosa.
Il secondo caso riguarda lo stradiota greco Giorgio Mizòteros da Tripolizza nel Peloponneso, che all'inizio della guerra di Cipro si rivolse agli spagnoli. Il Mizoteros era latore di richieste dei suoi compatrioti ed in particolare del patriarca Mitrofanis III per un intervento armato degli spagnoli nel Peloponneso. È caratteristico per lo sviluppo dei rapporti ispano-veneziani il fatto che cercarono di associarsi al Mizoteros e di giovarsi dei suoi piani antiturchi tanto i veneziani dell'Eptaneso, da dove il Mizoteros passò diretto verso la Spagna, quanto l'ambasciatore della Serenissima a Madrid (in seguito doge) Leonardo Donà. Il Mizoteros alla fine si rifiutò di collaborare con Venezia, pur essendo stato scoraggiato anche dagli spagnoli, che per mesi rimandavano continuamente una decisione sulle sue proposte. In ogni modo sono interessanti le confidenze che egli fece al Donà - confidenze che furono comunicate da quest'ultimo al governo veneziano - dalle quali si constatano la sincerità, il disinteresse ed il patriottismo di questo combattente greco.
L'eventuale accettazione delle proposte del Menaghias e del Mizoteros avrebbe impegnato gli spagnoli in imprese molto dispendiose, pericolose e di esito incerto. Perciò essi preferirono incoraggiare altri piani antiturchi, non meno arditi, ma di dimensioni limitate. Si tratta dell'organizzazione di squadre di sabotatori, che agivano di solito nella capitale dell'Impero ottomano, avendo come bersaglio soprattutto l'arsenale di Costantinopoli, base da cui muovevano le galere turche minacciando i domini spagnoli dell'Italia meridionale. Numerosi furono i tentativi di incendiarlo, di solito da parte di rinnegati, che, più per sete di guadagno che per ragioni sentimentali, si assumevano l'incarico di imitare quello che era accaduto nell'arsenale di Venezia il 13 settembre 1569. Citerò qui solo un caso, che presenta particolare interesse, sia perché i protagonisti furono greci, sia perché vi si intromisero in qualche modo delle personalità greche di rilievo. È il caso del corcirese cavaliere di Malta Giovanni Varelis e del sacerdote di Rodi Giovanni Acchidas, un caso del quale si è interessato per primo il prof. Fernand Braudel in una celebre sua opera fondamentale sul Mediterraneo all'epoca di Filippo II.
Lo svolgimento di questa impresa presenta molti particolari romanzeschi, tali che lo studioso è spesso costretto a domandarsi, dal momento che le informazioni non sempre si incrociano - dove si trovi la verità e dove invece intervenga la fantasia degli informatori. Ci limiteremo a riferire solo alcuni fatti indicativi. Il corcirese cavaliere di Malta, che era amico intimo del Grande Maestro dell'Ordine Jean Parisot de La Valette e membro di una nota famiglia della confraternita greca di Venezia, convinse, nell'estate del 1569, il governo spagnolo ad affidargli l'esecuzione di un ambizioso piano di azioni antiturche. Esso prevedeva: primo l'uccisione dell'erede al trono ottomano, secondo l'incendio del l'arsenale di Costantinopoli, terzo l'eliminazione di Giuseppe Nasi, il famoso consigliere ebreo del Sultano Selim II e nemico di chiarato della Spagna e quarto la provocazione di un moto insurrezionale nel Peloponneso, che avrebbe dovuto portare alla conquista di basi militari della zona da parte degli spagnoli. Collaboratori del Varelis sarebbero stati il suddetto sacerdote Giovanni Acchidas, che abitava in Sicilia e che apparteneva ad una famiglia greca di copisti e commercianti di manoscritti, il patriarca ecumenico Mitrofanis III, che era legato non solo alla famiglia Varelis ma anche alla Santa Sede, lo spahi greco rinnegato Mustafà Lampudis, l'arconte del Peloponneso Nicola Tsernotambeis, figlio, a quanto sembra, di Giovanni Tsernotàs che aveva sviluppato un'attività importante nella spedizione di Selim I contro l'Egitto, Isaac, egumeno di un antico monastero del Peloponneso e altre persone, note o sconosciute. Le proposte del Varelis suscitarono particolare interesse e commozione alla corte di Filippo. Ci fu il consueto scambio di vedute nel Consejo de Estado e infine il cavaliere greco fu autorizzato ad agire insieme con l'Acchidas e sotto il controllo del vicerè di Sicilia, il marchese di Pescara. È forse indicativo delle speranze che i consiglieri di Filippo nutrivano in questa impresa il fatto che furono rilevanti le spese approvate per il successo del piano e che grandi furono gli onori riservati al Varelis (udienza particolare dal re, che gli regalò un prezioso collare, eccezionali facilitazioni perché affrettasse la sua missione in Oriente ecc.). Nel novembre del 1569, il Varelis partì dalla penisola iberica per la Sicilia e il 14 gennaio 1570 la missione mosse alla volta di Creta su una nave greca, dopo esser stato rifornito dal Pescara di esplosivi, di vettovaglie, di passaporti falsi, di lettere regali e di doni per il patriarca.
L'impresa alla fine fallì, non solo a causa di molte avversità, ma anche della condotta maldestra dei cospiratori, come per esempio l'imprudenza del Varelis a Creta e la reciproca sfiducia fra il cavaliere e l'Acchidas, l'imprevisto scoppio della guerra veneto-turca per Cipro, la mancanza di intesa con i congiurati del Peloponneso e di Costantinopoli, il cattivo tempo in mare e i ritardi nello stabilire i contatti con i loro messaggeri e l'improvvisa morte di Nicola Tsernotambeis. Tutti questi fatti portarono alla scoperta di molti cospiratori del Peloponneso e costrinsero il Varelis e i suoi compagni a ritornare, senza aver concluso nulla, a Creta e di là in Sicilia. In ogni modo, malgrado le inopportune e avventurose iniziative di Varelis, nessuno dei suoi finanziatori spagnoli mise mai in dubbio la sincerità delle sue intenzioni rivoluzionarie. Ed è significativo che, quando venne riabilitato - dopo esser stato imprigionato per l'insuccesso e le grandi spese della missione - fu utilizzato da Don Juan d'Austria anche in altre missioni non meno importanti in Grecia negli anni 1572-1574.
Dopo la Spagna, Venezia fu la seconda grande potenza europea, con cui i greci ebbero contatti per una lotta comune contro il turco. Venezia però, non desiderando dare ai turchi un'occasione per una nuova guerra, era guardinga. Reagiva anzi ai tentativi di alleanza dei Greci con gli spagnoli, tentativi che riteneva pericolosi per i suoi interessi. Era questa politica filoturca di Venezia che spingeva i greci verso la Spagna. Il cambiamento della politica veneta avverrà un po' prima dello scoppio della guerra di Cipro, che la costrinse ad assumersi il peso maggiore della lotta antiturca. Questo avvenimento e in seguito la costituzione della Sacra Lega produsse una comprensibile commozione e riaccese le loro speranze in un intervento militare dell'Europa nel loro paese, soprattutto nei circoli dei commercianti ed eruditi greci della fiorente confraternita di Venezia. Da questi circoli vennero relazioni e piani analoghi a quelli che, come abbiamo visto, erano stati inviati al re di Spagna. Così il dottor Andrea Londanos da Nauplia, cavaliere dell'ordine di S. Stefano, sottopose, nel giugno 1570, al Consiglio dei Dieci due relazioni su operazioni militari in Grecia, assicurando di aver degli impegni scritti che promettevano la collaborazione degli abitanti dell'Albania, di Chimara e di Mani. Di queste proposte del Londanos la seconda era la più importante di essa si interessò seriamente il Consiglio dei Dieci. Riguardava l'occupazione dei transiti dalla Grecia continentale verso il Peloponneso e l'aggressione dei più importanti centri militari turchi nella Grecia del sud. È da notare che anche il fratello del Londanos, Nicola, pure lui erudito, indirizzò un appello al Papa Pio v per l'alleanza dei cristiani, in un libro stampato a Venezia nel 1569, e un discorso a Filippo II di contenuto analogo.
Un altro notissimo erudito greco di Venezia, Antonio Eparchos, sottopose nello stesso tempo un piano di operazioni navali in Grecia, di cui purtroppo non ci è rimasto il contenuto. Il 29 gennaio 1571 il Consiglio dei Dieci si occupò delle proposte del Londanos e di Eparchos e incaricò il Provveditor General del Mar Agostino Barbarigo di prendere accordi con le persone adatte.
Un terzo greco di Venezia, anch'egli erudito, Gregorio Malaxòs, sottopose, il 7 aprile 1570, al Consiglio dei Dieci delle relazioni per spiegare alla Serenissima come le sarebbe stato utile collaborare con il patriarca ecumenico Mitrofanis III, che avrebbe potuto, col suo prestigio, alimentare una rivolta nel Peloponneso a favore dei Veneziani.
Il Malaxòs rilevava con franchezza i precedenti errori dei veneziani nella politica ecclesiastica condotta nei confronti degli ortodossi greci, fatto che era la causa della diffidenza e inerzia di questi ultimi. Riteneva quindi opportuno che si assicurasse il patriarca sul fatto che il rito ortodosso dei greci sarebbe stato rispettato e che si garantisse alle popolazioni greche, che si sarebbero sollevate, che non sarebbero state abbandonate alla loro sorte, come in passato.
Il Consiglio dei Dieci, il 28 aprile, accettò le proposte del Malaxos e inviò un messaggio ufficiale al patriarca, redatto secondo lo spirito di queste proposte. I veneziani chiedevano la sua collaborazione e l'esercizio della sua influenza su ecclesiastici e laici per il successo di una rivoluzione nel Peloponneso, alla prima apparizione della flotta cristiana. Il Consiglio cercò di mandare questo messaggio per mezzo dello zar di Mosca Ivan IV. Un secondo messaggio di contenuto analogo glielo mandò a Costantinopoli, con un inviato speciale, il noto erudito di Chio Emanuele Glitzounis, che deve essere giunto agli inizi dell'estate 1570. I veneziani ritennero opportuno inviare anche un secondo incaricato al patriarca, con nuove lettere, molto probabilmente anch'egli greco, del quale però non ci è stato tramandato il nome. Purtroppo non ci sono rimaste neppure notizie sulla risposta del patriarca che era assente per un viaggio nel Peloponneso, l'Epiro e la Macedonia. Secondo posteriori affermazioni del Malaxòs, Mitrofanis corrispose effettivamente all'invito dei veneziani e incitò molti metropoliti, quattro dei quali furono per questo martirizzati a morte dopo Lepanto.
Vediamo adesso, dopo queste proposte e questi piani dei greci, gli scontri e le operazioni belliche a cui presero parte alla vigilia della battaglia di Lepanto. Queste operazioni ebbero luogo in zone di dominio veneziano, a Creta e nelle isole Ionie, a Cipro e nell'Epiro, come pure in territori di dominio turco, nelle Cicladi e nel Peloponneso e soprattutto a Mani.
Degne di nota sono le incursioni piratesche dei sudditi greci di Venezia contro i turchi. Da quando i veneziani si accertarono delle intenzioni ostili e a incoraggiare le offerte greche di spionaggio e di ostilità a danno dei turchi. Già dal 1568 accolsero la proposta del corcirese Pietro Lanzas per un'azione antiturca nella zona di Prevesa e di Lepanto. Nell'ottobre del 1569, Venezia accettò la collaborazione del cretese Nicola Fassidonis, che era stato condannato, era evaso ed era stato bandito e non solo lo amnistiò, ma mise anche a sua disposizione una nave con il suo equipaggio per intraprendere operazioni di pirateria e di spionaggio. Il Fassidonis si assunse volentieri il compito di corriere di fiducia del capo della flotta veneziana, rompendo il blocco alle coste di Cipro posto dalla flotta turca, e portando lettere al governatore della guarnigione di Famagosta, l'eroico Marcantonio Bragadin. Il governatore militare di Creta affidò un analogo incarico ad An tonio Evdemonoghiannis, che armò a sue spese due navi ed ebbe così tanti successi, da diventare più tardi uno dei più valenti elementi della flotta veneziana. Simile è anche il caso di Michele Spanopoulos da Sfakià a Creta.
Però, oltre al caso degli amnistiati in cambio di servizi resi alla repubblica, è testimoniato anche quello di altri che si offersero di armare navi di loro proprietà e di usarle con successo in incursioni. Citiamo i corciresi Francesco Sfendonis, Cristoforo Contocalis, Pietro Bouas, Giorgio Cocchinis e Stilianos Chalchiopoulos. Per allettante che fosse il bottino di guerra, non possiamo non riconoscere loro un movente più elevato.
Ma i veneziani furono molto aiutati dai greci anche nel respingere gli attacchi turchi a Zante, a Parga e a Corfù. Quando nel luglio 1571 avvenne lo sbarco a Zante di Uluz Ali, molti nobili dell'isola, i cui nomi ci sono stati tramandati dagli storici dell'Eptaneso, offrirono un aiuto decisivo al Provveditore Paolo Contarini. A capo della difesa di Parga ci fu nuovamente Pietro Lanzas, che organizzò a tempo l'evacuazione degli abitanti prima dell'invasione turca, nel luglio 1571. Emanuele Mormoris diresse la difesa di Sopotò e, infine, 100 stradioti greci e 500 fanti guidati da Giorgio Mormoris, fratello di Emanuele, respinsero con un contrattacco lo sbarco di Uluz Ali a Corfù, nel settembre 1571.
L'elenco dei greci che combatterono al fianco dei veneziani a Cipro, dallo sbarco fino alla caduta dell'isola (1570-71), è naturalmente lungo. Gli archivi spagnoli e veneziani possono, se studiati sistematicamente, renderlo più esteso e offrirci anche importanti informazioni sull'attività di questi greci, sia stradioti inviati per la difesa della guarnigione dell'isola, sia indigeni. La maggior parte di costoro cadde in battaglia o fu fatta prigioniera. Molti di quelli che sopravvissero continuarono la lotta contro i turchi su altri fronti d'operazione.
Una seria insurrezione contro i turchi ebbe luogo nell'Epiro, nel 1570, soprattutto nella zona di Chimara e di Parga. Questa sommossa fu appoggiata dalle autorità veneziane di Corfù e, in minor misura, dagli spagnoli. Venezia, nel marzo 1570, per creare una diversione nei turchi in vari punti cruciali, dalle coste dalmate fino a quelle del Peloponneso occidentale, decise di allearsi con gli indomiti chimarioti. Le proposte veneziane furono trasmesse a quest'ultimi dallo stesso provveditore di Corfù, Sebastiano Venier. Le trattative veneziane con i notabili dei paesi di Chimara giunsero ad un accordo grazie alla mediazione di importanti greci come Pietro Lanzas, Cristoforo Contocalis e altri. Il primo risultato positivo di questo accordo greco-veneziano fu la conquista del baluardo più importante della zona, il forte di Sopotò. La sua conquista venne portata a termine il 10 giugno 1570 e fu uno dei più rilevanti successi dei cristiani all'inizio della guerra di Cipro. Tutte le testimonianze del tempo esaltano il contributo greco, soprattutto quello dei soldati greci di Corfù e dei ribelli di Chimara. I primi erano guidati da Tommaso Mouzakis, mentre il comando generale dei ribelli dell'Epiro settentrionale era stato assunto da Emanuele Mormoris, che divenne governatore del forte dopo la sua conquista. Seguì un primo sfortunato assedio del forte di Margariti, che cadrà un po'più tardi, un mese dopo la battaglia di Lepanto. Così i greci e gli albanesi abitanti di quei luoghi spezzarono il giogo turco e as assicurarono ai veneziani indispensabili basi militari da Chimara fino a Prevesa.
Durante il primo anno della guerra i veneziani di Creta ebbero un altro successo, anche se effimero, nell'Egeo centrale. Gli abitanti di Nasso e di Siros collaborarono strettamente con Sebastiano Venier e abbatterono il dominio turco nelle Cicladi, portando sollievo a Tino, possedimento veneziano, che aveva subito, dopo l'inizio della guerra, forti pressioni turche.
Ma la più importante e più lunga insurrezione greca ebbe luogo a Mani, nel Peloponneso, focolare costante di sommosse durante quasi tutti i periodi della dominazione turca. Gli abitanti si erano sollevati fin dal 1568, reagendo all'imposizione di tasse per il finanziamento della guerra che gli ottomani preparavano contro Cipro. Quella sollevazione si era indebolita dopo la costruzione nel cosiddetto Brazzo di Maina di un forte turco, che fu per circa due anni una minaccia costante per gli abitanti ed anche per le navi cristiane che costeggiavano la zona trasportando dall'Italia rifornimenti per Cipro. Con lo scoppio della guerra però i manioti riapersero le ostilità, questa volta con maggior vigore. Anzi, secondo le informazioni del Mizoteros, del quale abbiamo già parlato, nel maggio 1570 erano insorti circa 12.000 abitanti del Brazzo di Maina, che avevano esteso il loro potere fin quasi a Corone. Difatti i turchi del Peloponneso meridionale, dopo questi avvenimenti, furono costretti a disarmare gli altri greci e ad abbandonare la campagna per rinchiudersi nei
forti più importanti della zona. Nell'estate del 1570 venne neutralizzata anche la fortezza turca di Mani. L'operazione fu eseguita da forze veneziane guidate dal capo della flotta dell'Adriatico Marco Querini, su invito dei manioti. Gli abitanti presero parte attiva all'assedio, alla conquista e alla demolizione del forte avvenuta il 4 luglio 1570.
Non rimasero però soddisfatti della lettera ducale di ringraziamento e chiesero tramite dei loro rappresentanti, che si presentarono al Senato nella primavera del 1571, una più attiva partecipazione dei veneziani alla rivolta, un rinforzo di 2000 uomini e di armi e la guida da parte dei capi veneziani. Il doge ordinò due volte al Venier di accordarsi con i manioti e di mettere a loro disposizione almeno le armi di cui abbisognavano, ma la situazione critica che era venuta a crearsi a Cipro non permise alla fine ai veneziani di occuparsi sistematicamente della rivolta dei manioti, fatto che, spinse quest'ultimi a rivolgersi alla Spagna e al capo della Sacra Lega Don Juan.
Partecipazione e il contributo dei greci alla battaglia navale del 7 ottobre 1571 presso le isole Echinadi, al largo della fortezza ottomana di Lepanto.
Non ci soffermeremo naturalmente né sulla descrizione, né sul bilancio né sul significato della grande battaglia. Daremo solo alcuni elementi che riguardano i greci e che purtroppo non sono definitivi, perché non è stata ancora fatta una ricerca particolareggiata.
È comunque incontestabile che a questo storico confronto navale parteciparono molte migliaia di greci, da entrambe le parti. Quanto al fronte turco, ci sono noti i seguenti dati grazie anche ad un recente lavoro dello studioso greco Basilio Sfiroeras, che poté usare le principali fonti edite greche e europee (ma purtroppo non quelle turche). A metà del XVI secolo la flotta turca era formata, almeno per la metà, da sudditi greci reclutati fra le popolazioni della Grecia e dell'Asia Minore. Alla vigilia della battaglia di Lepanto un firmano del sultano impose un vastissimo arruolamento di turchi e di greci. Durante la battaglia metà circa degli equipaggi della flotta turca proveniva da regioni greche. Il numero complessivo di questi greci (marinai e rematori) si può calcolare intorno ai 25.000 uomini. Per molte ragioni è difficile avere dati statistici più precisi. Comunque, la percentuale dei greci arruolati dai turchi, anche se non era così alta (50 %), doveva essere almeno del 40 o 30 per cento. E analoghe certo devono essere state anche le loro perdite. Giustamente lo Sfiroeras ha osservato che, tenendo conto anche dei greci al servizio della flotta cristiana, il sangue che venne versato in questa grande carneficina e che in poche ore tinse di rosso il mare, era in gran parte greco. Non ha d'altronde minor importanza il fatto, testimoniato dalle fonti con temporanee, che i marinai cristiani della flotta turca tennero durante lo scontro un atteggiamento passivo, che facilitò notevolmente la vittoria degli alleati e che i galeotti cristiani si ammutinarono durante la battaglia navale, ragione per cui dopo la vittoria 15.000 di costoro vennero liberati.
Ma anche sul fronte cristiano la percentuale dei greci che combatterono nella battaglia navale, se non era tanto elevata come su quello turco, era tuttavia notevolissima. Per questo caso abbiamo maggiori e più precise testimonianze. Non dobbiamo scordare però che, subito dopo la costituzione della Sacra Lega, i greci delle terre sotto dominio veneziano si affrettarono ad offrire con entusiasmo il loro aiuto, contribuendo alle spese di guerra e prestando servizio di buon grado nella marina e nel l'esercito. Così non solo gli equipaggi veneziani erano formati da un gran numero di greci, dato che, come si sa, l'arruolamento veniva praticato sistematicamente in quelle colonie della Serenissima, ma anche molte delle navi cristiane che furono allestite per la guerra erano greche, con capitani ed equipaggi greci, soprattutto di Creta e dell'Eptaneso.
Cito a tale proposito alcuni dati indicativi. Nella primavera del 1570 gli abitanti greci di Corfù armarono a loro spese quattro galere da guerra comandate da nobili corciresi, per rinforzare la flotta veneziana dell'Ionio. Anche molti nobili di Zante e di Cefalonia prestarono il loro aiuto per arruolare combattenti e per armare galere. Più di tutti però aiutarono i cretesi. Abbiamo testimonianze su venti cretesi almeno, che armarono navi per la guerra. Fra costoro c'era anche Manoussos Theotocopoulos, membro della confraternita greca di Venezia e fratello del famoso pittore Domenico Theotocopoulos detto El Greco.
In una statistica si riporta che nel 1570 furono reclutati a Creta 2804 tra rematori e marinai e 3730 "huomeni da spada". Si riferisce pure che furono usate da Creta in missioni militari 21 galere nel 1570 e 18 nel 1571.
Quasi tutte queste galere e gli equipaggi che furono reclutati nelle provincie greche presero parte alla battaglia. Abbiamo però anche altre informazioni più concrete sulla partecipazione di navi ed equipaggi greci allo scontro. Sappiamo per esempio che solo dall'isola di Zante presero parte le seguenti galere: la galera della comunità zantiota con sopracomito Antonio Coutouvalis, la galera "Panaghia" di Nicola Mondinos, le galere di Demetrio Comoutos, di Marco Sigouros e di suo figlio Marino, di Nicola Foscardis e di Alessandro Fotinòs. Quanto a Creta, sono attestati quaranta nomi di cretesi o veneto-cretesi che presero parte alla battaglia come capitani (sopracomiti) di galere. I più provenivano da Candia e alcuni da Retimno. Disponiamo invece di dati molto minori sul numero di soldati e marinai greci al servizio delle forze spagnole. Da alcune indicazioni possiamo però dedurre che era quasi altrettanto rilevante. Un elenco dei combattenti di Lepanto proveniente dal Regno di Napoli contiene molti nomi di greci e ci dimostra che anche sul fronte spagnolo la loro percentuale era notevole. Riassumendo, ritengo che si possa dare per certo, anche in base agli elementi di cui dispone oggi la ricerca, che nel tragico bilancio dei morti e dei feriti i greci vengono in primo posto come percentuale tra tutte le nazioni, grandi o piccole, che presero parte alla battaglia di Lepanto.
Per quanto concerne gli scritti e i discorsi, i libri e le opere d'arte ispirati in Europa dalla vittoria cristiana di Lepanto, dobbiamo ammettere che l'apporto greco è assai scarso. Contemporanee all'epoca degli avvenimenti ci sono rimaste solo alcune note di cronaca in lingua popolare, che ricordano con sobria concisione il grande fatto. Eccone un esempio: L'8 ottobre 1571, giorno di domenica, si scontrarono le due armate, i turchi con 300 vascelli e 100 galere della Barberia e i cristiani con 170, i veneziani con... ecc. ecc... al largo delle isole Curzoulari e la battaglia durò tre ore e vinsero i cristiani e si salvarono solo 28 vascelli e galere turche che fuggirono con Uluz Ali." Un canto popolare, tramandotoci in più di una versione, descrive in pochi versi la partenza della flotta cristiana dallo stretto di Messina alla caccia di Alì-pascià (l'ammiraglio turco), lo scontro fra le due armate e la morte di Alì. Un poema narrativo anonimo in greco volgare, di oltre tremila versi, avente come soggetto la guerra veneto-turca del 1570-73 e rimasto ancora inedito, dedica alcune centinaia di versi alla battaglia di Lepanto; sembra però che non sia stato ispirato direttamente dal grande avvenimento, ma che sia stato composto qualche decennio dopo e che abbia come modello una cronaca italiana.
Quanto alle opere d'arte, se la battaglia venne immortalata dai grandi pittori veneziani Tintoretto, Veronese e Tiziano, il pittore greco Domenico Theotocopoulos fece il ritratto del comandante supremo e vincitore Don Juan d'Austria. Un altro pittore greco, Giorgio Klontzas, rappresentò, con il suo tipico stile miniaturistico, la battaglia di Lepanto in una cronaca copiata e illustrata completamente dalla sua mano, fra 1590 e 1592, oggi conservata presso la Biblioteca Marciana. Questo disegno è uno dei più belli del codice.
Contemporanea agli avvenimenti è d'altronde la rappresentazione della conquista di Margariti (nel palazzo ducale), opera del pittore greco Antonio Vassilakis, detto l'Aliense, a cui sono stati attribuiti anche altri dipinti con soggetti in rapporto con l'epoca di Lepanto. Un po' più tardi dei pittori dell'Eptaneso dipinsero su icone portatili di ispirazione greca il soggetto oppure scene della battaglia navale. La maggior parte però di queste icone è andata distrutta durante i terremoti del 1953.
Un altro pittore greco che indirettamente rappresentò il significato allegorico di Lepanto è il celebre cretese Michail Damaskinòs, alias Michele Damasceno, celebre iconografo, principale esponente della scuola cretese di maniera greca, noto soprattutto per i suoi capolavori nella chiesa di San Giorgio dei Greci (Venezia) dove lavorò dal 1569 al 1589.
In questa icona, di qualche anno successiva alla battaglia del 7 ottobre 1571, che si è svolta, ricordiamo, "nel giorno di Santa Giustina", Damasceno rappresenta Santa Giustina di Padova mentre calpesta il nemico della cristianità, simbolicamente rappresentato nella veste del drago di San Giorgio. Si tratta di un'evidente allusione alla grande battaglia di Lepanto.
Sono rappresentati anche i due santi bizantini ortodossi del giorno 7 ottobre, e cioè i Santi soldati Sergio e Bacco a cui era dedicata una famosa chiesa a Costantinopoli (ora moschea nota come Kucuk Ayasofya camii, "moschea piccola Aghia Sofia"). Un perfetto esempio di sincretismo culturale e religioso tipico del commonwealth greco-veneto
 
 
Passo ora alla terza ed ultima parte della mia relazione, che tratta delle conseguenze immediate della battaglia di Lepanto. Spero che, da quel poco che riferirò, venga dimostrato che il contributo greco alle operazioni degli alleati cristiani durante il successivo 1572 è stato sottovalutato dalla storiografia europea e che non si deve attribuire ai greci alcuna responsabilità nel fallimento di quelle operazioni.

È facile immaginare la grande gioia e l'entusiasmo che l'annuncio della vittoria di Lepanto suscitò nell'animo dei greci in schiavitù. Tutti credettero effettivamente che con l'intervento delle potenze cristiane vincitrici fosse giunta l'ora della liberazione. Soprattutto gli abitanti del Peloponneso e della Grecia continentale non esitarono a ribellarsi, incitati dalla presenza del la flotta alleata vincitrice lungo le loro coste e dalle esortazioni dei capi cristiani che, come narra la cronaca popolare di Galaxidi, promisero aiuto se si fossero levati in armi contro i turchi. La stessa fonte ci informa che "vennero molti moraiti a Galaxidi e dentro la chiesa di San Pantaleone si accordarono con giuramento con gli abitanti di Galaxidi per ribellarsi lo stesso giorno..."

Questi accordi non vennero presi solo su iniziativa dei greci. I capi della Lega fecero molte promesse ai rappresentanti delle provincie greche. Particolare entusiasmo dimostrò il capo supremo delle forze alleate, il giovane e ambizioso principe Don Juan d'Austria, certamente adulato dagli inviti dei greci a liberare il loro paese per assumere il regno del Peloponneso. Così fin dalla vigilia della battaglia Don Juan accoglie proposte da parte di abitanti del Peloponneso e di albanesi. Dopo la vittoria egli invia persone di sua fiducia con promesse di aiuto con inviti alla pazienza e alla prudenza a Rodi, alle Cicladi, ma anche a Mitilene, in Epiro e in Albania. I greci, dall'altra parte, per con vincere gli alleati delle loro sincere intenzioni, offrono in ostaggio dei loro connazionali e promettono categoricamente che tutti si sarebbero sollevati e ribellati con entusiasmo. Parallelamente operano anche i veneziani e alcune volte anche il rappresentante del Vaticano Marcantonio Colonna - per preparare alcune provincie ad un'eventuale sommossa. Intrecciano delle trattative con i manioti e nuovamente con gli abitanti della Grecia occidentale, con gli epiroti e con gli albanesi.

La mancanza però di organizzazione, l'incertezza e anche l'indifferenza degli alleati ad intervenire in Grecia e le misure precauzionali dei turchi,
che erano stati preavvisati di queste macchinazioni da delatori volontari o involontari, condussero all'insuccesso tutti questi piani ambiziosi di liberazione e di rivolta: la sommossa nella Grecia continentale fu neutralizzata dal bey di Salona, che fece arrestare e massacrare i notabili di Galaxidi, che erano all'origine del moto insurrezionale. 
Il Caroussos di Lepanto, che aveva anch'egli preso parte alle trattative con Don Juan, fu arrestato e decapitato e i suoi beni furono confiscati. 
Nel Peloponneso nord-occidentale dove si erano manifestati - dall'epoca dei moti di Giovanni Varelis - dei fermenti di sommossa, i turchi agirono fulmineamente dopo il tradimento di un abitante dell'Egion: il monastero dell'Arcangelo Michele fu distrutto fin alle fondamenta e il metropolita di Patrasso Germano I e alcuni notabili (Sofianòs da Patrasso, Emanuele Petropoulos da Mistrà ed altri) furono impalati e decapitati. Patrasso visse ancora in un regime di terrore un po' più tardi, quando, dopo la partenza della flotta alleata dalla Grecia, Ulutz Alì venne a sapere di una nuova congiura degli abitanti della città con gli spagnoli. Giunsero allora navi, turche nel porto, arrestarono un gran numero di sospetti e dopo le indagini alcuni di costoro furono scorticati vivi, altri decapitati o impalati e alcuni, forse i capi, vennero mandati in ceppi a Costantinopoli dove, dopo che ebbero confessato davanti al pascià Maometto ogni particolare della congiura, vennero giustiziati in vari modi.

Per motivi analoghi ci furono arresti ed esecuzioni di notabili greci e di ecclesiastici a Rodi, dove, come abbiamo riferito,Don Juan aveva già mandato a Mitilene, persone di sua fiducia, a Carpato, a Nasso, dove i greci e i veneziani avevano abolito il potere turco, catturando gli ebrei al servizio di Giuseppe Nasi, in Macedonia (a Salonicco e a Serres), nella stessa Costantinopoli dove, dopo la notizia della vittoria cristiana a Lepanto, si segnalarono gravi episodi di violenza e assassinî di sospetti. Fonti veneziane accennano al pericolo che corse anche lo stesso patriarca ecumenico con un altro metropolita greco, mentre dei rapporti di profughi greci in Spagna riferiscono regolarmente le stragi, le oppressioni e le distruzioni che subirono quanti furono ritenuti sospetti di aver avuto contatti con gli alleati, prima e soprattutto dopo la vittoria del 7 ottobre.

Le informazioni su questi drammatici avvenimenti sono imprecise e talvolta confuse. L'ambasciatore francese a Costantinopoli Du Ferrier parla dell'eccidio di migliaia di greci, ecclesiastici e laici, vittime delle rappresaglie turche o della paura di un'eventuale sollevazione. Maggiori elementi ci sono rimasti sulla rivolta di Mani, che durò anche di più e che annoverò un maggior numero di ribelli. Abbiamo visto che i manioti erano insorti fin dal 1568 e che si erano accordati con i veneziani per una rivolta più sistematica. Il governo veneziano aveva approvato la fornitura di armi ai ribelli di Mani e aveva nominato loro capi un veneziano, il segretario del Provveditore di Cerigo Fabiano Barbo, e un greco, il nobile zantiota Nucio Sigouros, padre del futuro santo protettore dell'isola Dionigi Sigouros (Aghios Dionysios). Sembra però che alla fine non giunsero a destinazione né le armi né i comandanti designati. Così i manioti furono spinti a stabilire i primi contatti con gli spagnoli, contatti che più tardi porteranno ad una collaborazione costante contro i turchi e che dureranno fin quasi alla fine del XVI secolo.

Per la rivolta di Mani ebbe un ruolo decisivo l'assunzione del comando degli insorti da parte del metropolita di Malvasia Macario Melissourgòs o, come è più conosciuto, Melissinòs, [Macario Melisseno] che aveva cercato anche all'inizio della guerra di venire in contatto con i veneziani per provocare una rivoluzione nel Peloponneso. Macario aveva allora collaborato con altri notabili di Malvasia e con alcuni oriundi della stessa città dimoranti a Creta, uno dei quali era anche il futuro metropolita titolare di Filadelfia, con sede a Venezia, Gabriele Seviros. Questi accordi vennero scoperti e il Melissinòs riuscì a sfuggire alla persecuzione solo grazie alla sua provata abilità. Dopo la battaglia di Lepanto però fu costretto a passare a Mani con il fratello Teodoro e ad assumere là il comando della lotta. Da Mani il Melissinòs ricominciò subito a lanciare appelli di aiuto tanto ai veneziani Sebastiano Venier quanto agli spagnoli. Manda a Corfù il vescovo di Mani e a Palermo il fratello Teodoro. Nel novembre 1571, dopo le continue pressioni dei greci, Filippo II approva la costruzione a Milano di un quantitativo di armi, che avrebbero dovuto essere distribuite ai ribelli del Peloponneso. Alla fine del 1571 il capo della Lega invia a Mani un suo rappresentante particolare, Giovanni Stais, da Cerigo, ufficiale di artiglieria al servizio degli spagnoli, il quale avrebbe dovuto mettere a punto con i due fratelli Melissinòs i particolari della futura collaborazione - durante il 1572 - tra insorti e alleati. I veneziani si erano però insospettiti per questi continui contatti tra spagnoli e greci e per le iniziative di Don Juan in zone che un tempo appartenevano alla loro sfera di influenza.

Arrestano a Corfù Stais e lo incarcerano, diffamano un vescovo ortodosso della regione che era favorevole all'avvicinamento agli spagnoli e cercano di assicurarsi l'amicizia di Macario Melissinos, promettendo l'invio di Nucio Sigouros alla testa di un piccolo reparto militare. Don Juan reagisce e chiede l'immediata scarcerazione del suo inviato, che alla fine viene lasciato libero- ma sotto stretto controllo - di raggiungere Mani e di incontrarsi con i ribelli. In una riunione segreta nel monastero di Timiova, il 28 febbraio 1572, gli insorti e lo Stais si accordano di incominciare le ostilità all'arrivo dell'armata alleata nelle coste sud-occidentali del Peloponneso. Don Juan viene nuovamente in contatto con i manioti, questa volta tramite il fratello di Macario, Teodoro Melissinòs. In una lettera a Macario, tramandataci in greco, si giustifica per il grande ritardo della flotta alleata e promette ancora una volta di muoversi verso la metà di giugno, per portare sollievo agli insorti greci. Teodoro Melissinòs ritorna a Corfù, da dove segue i due altri ammiragli, il Colonna e il Foscarini, durante la discesa della flotta verso l'Ionio meridionale. Il 31 luglio Marcantonio Colonna invia ai ribelli per mezzo di Teodoro proclami con promesse di aiuto che egli e Don Juan avrebbero prestato per liberarli dalla tirannia turca. I manioti riprendono con nuovo coraggio le ostilità, hanno alcuni successi, facendo prigionieri e provocando notevoli perdite ai turchi. Ma appena vedono che l'armata alleata si allontana dalle loro coste senza far sbarcare neanche un soldato, né armi e rifornimenti, si scoraggiano e si disperdono. Invano Macario indirizza agli ammiragli cristiani, che al principio di ottobre stazionavano a Navarino, nuovi disperati appelli tramite suo fratello Teodoro. Don Juan si limitò a promettere ancora una volta un aiuto per il prossimo anno, consigliando ai ribelli di evitare l'estensione della sommossa per ragioni di sicurezza. 

È noto l'atteggiamento successivo degli alleati: dopo un infelice sbarco di 8.000 uomini nella valle di Navarino, il 4-5 ottobre, e dopo una inutile sfilata della flotta al largo di Modone (7-8 ottobre), abbandonarono definitivamente il Peloponneso e quanti speravano nel loro aiuto.

La stessa sorte dei moti rivoluzionari della Grecia meridionale ebbero anche gli analoghi tentativi nella Grecia occidentale, nella città di Etolikòn, dove aveva assunto la guida degli insorti lo zantiota Angelo Salviati, e nella regione di Zaverda, di fronte a Santa Maura, dove era stato mandato dai veneziani Nicola Raftopoulos. Delusi rimasero pure i ribelli dell'Epiro del Nord, dove si erano sollevati i notabili greci di Argirocastron Manthos Papagiannis e Panos Kestolicos. 

Questi notabili si erano accordati con l'arcivescovo di Ochrida Ioachim ed anche con alcuni metropoliti della Macedonia occidentale e dell'Epiro, si erano assicurati promesse di Don Juan per un sostegno armato, ma furono costretti anche loro a capitolare dopo il crollo delle loro speranze. Assieme però a quelli che presero parte ai moti antiturchi, un grande numero di innocenti subì delle ripercussioni, pagando con il sangue, con arruolamenti nell'esercito ed in marina e con pesanti tassazioni le perdite turche a Lepanto e le necessità per la riorganizzazione dell'esercito e della flotta ottomana.

Una lettera, spedita al papa Pio v il 15 marzo 1572 dal metropolita ortodosso di Puglia, Calabria e Sicilia Timoteo, ci dà informazioni molto interessanti su queste persecuzioni e vessazioni e in generale sulla situazione che venne a crearsi nelle terre greche di dominio turco, pochi mesi dopo la battaglia di Lepanto. Si tratta di un testo greco di eccezionale interesse da molti punti di vista, che ci informa sulle dure misure prese dai turchi contro i sudditi cristiani dopo la battaglia e sui loro energici sforzi per riparare alle perdite belliche, ricostituendo l'esercito e ricostruendo la flotta. "Dopo che il Siignore misericordioso concesse la vittoria alle nazioni cristiane che conquistarono l'armata dei turchi, l'infedele divenne una belva feroce verso i cristiani, ovunque si trovassero in Levante, nei suoi domini. Inviò commissari... in tutto il suo impero, per raccogliere i figli dei cristiani... e per farli turchi, per supplire alle perdite dei giannizzeri (subite) dall'armata... Quanto ai vascelli che aveva perso, al loro posto ne costruisce altri trecento di nuovi che verranno aggiunti di vecchi rimasti; spera di averli pronti per maggio e costruisce i vascelli nel Mar Nero per maggior sicurezza e per il molto legno che lì si trova... E il grande turco ha molto denaro e molto cibo e molti capomastri e molti uomini e ha angariato tutto l'impero per armare i vascelli... Ora più che mai ha fretta di dare battaglia per cancellare la vergogna. E ha rovinato i cristiani facendoli diventare turchi e vessandoli per fare i vascelli. E se in questo anno non si farà la guerra, l'anno seguente farà altri trecento vascelli e così diventeranno seicento. Notte e giorno non fanno niente altro che vascelli. E tutta la notte non lasciano riposare gli operai, ma li fanno lavorare al lume di candela."

In seguito Timoteo propone al Papa un piano d'operazione combinata contro Costantinopoli. Una squadra navale attaccherà il Peloponneso e, dopo aver distrutto le sue fortezze, avanzerà fino a Costantinopoli che ha «mura deboli che presto si superano». Da terra dovrà passare all'offensiva l'esercito di Massimiliano II in Ungheria che, guadando il Danubio, giungerà anch'esso a Costantinopoli. Una terza invasione verrà intrapresa da Durazzo, dove insorgeranno e aiuteranno anche le popolazioni albanesi. Altri sbarchi infine potranno avvenire nel Peloponneso occidentale e a Mani.

Dopo aver dato altre informazioni di importanza strategica sulle difese dei turchi, Timoteo si offre di andare lui stesso a Costantinopoli (scriveva da Varsavia) per raccogliere e mandare al Papa altri elementi utili. È però dubbio se questa lettera sia giunta a Roma prima del primo maggio 1572 e abbia raggiunto Pio V in vita.

È da rimarcare che in questo piano Timoteo non fa alcuna menzione dei veneziani. Non si sa se fin da allora Timoteo fosse stato informato o avesse intuito che Venezia aveva intenzione di stipulare una pace separata con i turchi, come infatti avvenne nel 1573.

È un fatto che, subito dopo l'annuncio della firma del trattato turco-veneziano, i greci smisero di inviare appelli ai veneziani per l'organizzazione di moti antiturchi e si rivolsero ormai definitivamente al Papa e soprattutto alla Spagna, che con la vittoria di Lepanto aveva acquisito reputazione di grande potenza militare presso i popoli dei Balcani. Particolari reazioni contro il voltafaccia veneziano ebbero luogo nell'Epiro, regione strettamente legata agli interessi veneziani, e nelle Isole Ionie. Quanti avevano preso parte ad azioni antiturche prima, durante e dopo la battaglia, abbandonarono la lotta e cominciarono a collaborare con il vicerè di Napoli. È noto il caso del corcirese Pietro Lanzas, sopracomito e governatore militare di Parga, che provocò, dopo il 1573, dei gravi incidenti diplomatici fra i veneziani e gli spagnoli. 

Indicativo è anche il comportamento degli irriducibili chimarioti, che reagirono violentemente dopo la resa del forte di Sopotò ai Turchi, prevista dal trattato del 1573. I chimarioti consideravano la conquista di Sopotò quasi come un'opera loro e si rendevano conto che, se questo forte fosse stato ceduto, sarebbe diventato una base militare turca che avrebbe minacciato la loro autonomia. Così, subito dopo la pace veneto-turca, inizieranno una nuova sommossa, questa volta con l'aiuto degli spagnoli e avendo come avversari non solo i turchi, ma anche i veneziani.

Si creò dunque nella penisola greca una nuova situazione che ebbe ripercussioni anche sulle relazioni fra la Spagna e Venezia. Lepanto ravvivò le speranze e creò il clima idoneo per una serie di azioni rivoluzionarie contro i turchi con l'incoraggiamento e l'aiuto degli spagnoli. 
L'eco della vittoria navale non si spense facilmente presso le popolazioni greche in schiavitù che continueranno a lottare, fin quasi alla fine del XVI secolo, per ottenere un aiuto cristiano, invocando sempre quella gloriosa giornata, la « giornata della vittoria», come la definiscono nei loro appelli agli spagnoli ed al Papa, una giornata alla quale i greci avevano apportato un contributo non indifferente.
 
 
 
 
 
 
 

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